Il ghetto di Roma ha una storia, fra le tante di questa città, che colpisce per le emozioni che suscita, così forti e così apparentemente contrastanti, e merita di essere raccontata. Anzi, direi, vissuta.
Il ghetto. Sebbene la parola ci riporti immediatamente alla Shoah, ed in particolare al tristemente famoso rastrellamento del 16 Ottobre 1943, non è da lì che vogliamo cominciare il nostro viaggio. Perché quello è un evento chiave della storia che stiamo per raccontare, ma non ne è l’origine. Piuttosto è una sorta di punto di non ritorno dopo il quale tutto è definitivamente cambiato, anche nella percezione che si ha di questo luogo.
Dunque partiremo da molto prima, attraverseremo millenni di storia gioendo, a cuor leggero, delle testimonianze archeologiche ed architettoniche che abbondantemente impreziosiscono il quartiere. Noteremo poi come la cultura ebraica e quella romana si trovino da tempi più che remoti legate indissolubilmente l’una all’altra.
E questo legame ci è dimostrato, ad esempio, dai succulenti e sfiziosi piatti della cucina giudaico-romanesca, che possiamo assaggiare presso i numerosi ristoranti, panifici, dolcerie presenti al ghetto. Basti leggere anche le insegne dei negozi o, per i più curiosi, avvicinarsi ai citofoni, quelli che leggiamo sono nomi e cognomi ebraici, ma da sempre presenti a Roma.
La comunità ebraica romana è la più antica d’Italia e la sua presenza non ha fondamentalmente subito interruzioni fino ad oggi.
Passo dopo passo, epoca dopo epoca, arriveremo anche agli eventi tragici della Seconda Guerra Mondiale e a tutto quello che hanno comportato. Non con la presunzione di darne un’analisi storica, né tantomeno con l’illusione di trovarne un senso. Ma solo con la speranza che il nostro gironzolare da visitatori entusiasti diventi anche un momento di riflessione.
La Diaspora: nasce la comunità a Roma
Una fonte del II secolo a. C. dà notizia del primo stanziamento ebraico a Roma.
Si tratta per lo più di mercanti. Come quelli greci, fenici ed etruschi attraversano il Mediterraneo ed approdano nei più importanti porti dell’epoca. In breve tempo, danno vita ad una ricca e fiorente comunità.
Ma se dovessimo individuare una data che dà avvio ad una cospicua presenza ebraica a Roma e non solo, quella è il 70 d.C. La distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera di Tito e la successiva devastazione della stessa città per mano di Adriano, danno vita a quel fenomeno noto come “diaspora”, ossia dispersione.
Un bassorilievo dell’Arco di Tito, presso il Foro romano, celebra l’evento simbolo della guerra giudaica. È la sottrazione della Menorah in seguito al saccheggio del Tempio di Gerusalemme.
I primi secoli dell’impero scorrono piuttosto pacificamente per gli Ebrei. Ma con Teodosio e poi con Giustiniano essi subiscono pesanti limitazioni da un punto di vista giuridico.
Tuttavia nei secoli del Medioevo, vivono ancora in insediamenti liberi in mezzo ai cristiani. È un equilibrio difficilmente mantenuto per via delle profonde differenze culturali.
Si pensi alla tradizione della macellazione della carne, o al diverso rito per la sepoltura dei defunti.
Questa sorta di conciliazione salta intorno al XIII secolo durante il quale aumentano conversioni forzate, persecuzioni ed esili.
Proprio per disciplinare la presenza ebraica e, soprattutto, per avviarne implicitamente la conversione alla fede cristiana, nasce l’idea del ghetto.
Via del Portico d’Ottavia verso via Arenula alle spalle del Portico | ©Francesca Boccini
Tra XVI e XIX secolo gli Ebrei d’Italia si trovano a vivere all’interno di quartieri circondati da mura e porte chiuse dal tramonto all’alba. Infatti è bene distinguere il ghetto dalla Giudecca, che è un quartiere abitato da Ebrei, ma aperto.
Le origini del ghetto di Roma
Il ghetto di Roma nasce ufficialmente nel 1555 con la bolla Cum nimis absurdum emanata da papa Paolo IV Carafa. È secondo in ordine di tempo solo a quello di Venezia, fondato nel 1516.
Edicola a rione Sat’Angelo ©Francesca Boccini
Fino al 1823 la sua estensione originaria è di circa tre ettari. Viene poi ampliato includendo una nuova parte tra Via del Portico d’Ottavia, Via della Reginella, Piazza Mattei e Via di Sant’Ambrogio e una parte di Via di Sant’Angelo in Pescheria.
Per ben due volte i portoni del ghetto di Roma vengono aperti. Nel 1798-99 durante la Repubblica Romana e definitivamente nel 1848, con il pontificato di Pio IX.
Via di Sant’Angelo in Pescheria e via della Reginella | ©Francesca Boccini
All’apertura esso si presenta come un agglomerato di palazzine con tanti piani e sovraffollate.
Il forte degrado che lo caratterizza, la costruzione degli argini del Tevere e la volontà di porre fine a quell’isolamento coatto del popolo ebraico-romano sono le cause delle demolizioni di fine Ottocento, in seguito alle quali il ghetto perde la sua originaria fisionomia.
Così, quattro nuovi isolati in stile liberty vengo costruiti al posto degli edifici abbattuti.
Possiamo farci un’idea di come doveva apparire il ghetto prima delle demolizioni, passeggiando per Via della Reginella, Vicolo di Sant’Ambrogio e Via della Pescheria. Le strette viuzze inglobate nell’ampliamento del 1823.
Anche se oggi l’antico ghetto cinquecentesco non esiste più, tutti noi continuiamo a chiamarlo così, ma dove si trova esattamente?
Il ponte Fabricio e rione Sant’Angelo
Ci troviamo nel settore più meridionale del Campo Marzio. Da una parte Trastevere, sede della prima comunità ebraica romana e dall’altra, – al di là del ponte Fabricio il rione Sant’Angelo. Il ponte è detto anche ponte Quattro Capi e, non a caso, pons Judaeorum.
Già in età repubblicana un’importante attività edilizia aveva interessato l’area. Culminò nella costruzione del Circo Flaminio nel 220 a.C. ad opera di C. Flaminius Nepos, all’interno del quale si svolgevano i concilia plebis.
Grazie alle ricerche archeologiche sappiamo che sorgeva esattamente nella zona compresa tra il Teatro di Marcello, piazza Cairoli, via del Portico d’Ottavia e il Tevere.
Rione Sant’Angelo, ponte Fabricio e Isola Tiberina | ©Francesca Boccini
Per orientarci meglio, il lato settentrionale del circo corrispondeva all’attuale via del Portico d’Ottavia. Allineati ad esso erano sorti, sempre in età repubblicana, diversi portici e templi.
Attraversato dunque ponte Quattro Capi, lasciatoci Trastevere alle spalle – e non prima di aver fatto una passeggiata nell’isola Tiberina – ci addentriamo nel ghetto di Roma.
San Gregorio della Divina Pietà
Sulla destra c’è la piccola chiesa di San Gregorio della Divina Pietà o San Gregorio a Ponte Quattro Capi, di cui abbiamo notizie sin dal XII secolo.
San Gregorio della Divina Pietà e particolare del portale | ©Francesca Boccini
Nel 1727 l’edificio viene ceduto alla congregazione degli Operai della Divina Pietà per offrire un sostegno alle famiglie povere. In quell’occasione, viene ricostruita da Filippo Barigioni.
A decorazione del portale, un affresco con Crocifissione di Étienne Parrocel.
È un tema iconografico più che noto o così si potrebbe pensare. Ma ad un’osservazione più attenta noteremmo la duplice iscrizione, in latino ed ebraico, nel cartiglio che esorta gli Ebrei a non perseverare nella loro fede.
Siamo di fronte ad una testimonianza delle note prediche coatte cui gli Ebrei vengono sottoposti sin dal XVI secolo. Pare che alcuni utilizzassero dei tappi di cera pur di non cedere a questa sorta di conversione forzata.
Sulla sinistra troneggia la bellissima Sinagoga, realizzata tra il 1899 e il 1904 dagli architetti Osvaldo Armanni e Vincenzo Costa.
Questa occupa uno dei quattro nuovi isolati, progettati agli inizi del Novecento, a seguito delle demolizioni ottocentesche. Gli altri tre sono quello delle palazzine liberty di via Catalana, quello comprendente l’attuale complesso delle scuole ebraiche ed infine l’edificio umbertino che dà su via del Portico d’Ottavia.
Palazzina liberty e dettaglio decorativo | ©Francesca Boccini
Ghetto di Roma. La Sinagoga
La Sinagoga ha una pianta a croce greca sormontata da una cupola a padiglione su tamburo quadrato. Reca sulle vetrate e sulle pareti elementi decorativi che richiamano fortemente la tradizione iconografica orientale come il candelabro a sette bracci, le tavole della Legge, la stella di David e la palma.
Facciata della Sinagoga e dettagli decorativi ©Francesca Boccini
Agli inizi del Cinquecento le Sinagoghe erano nove o dieci. Nel 1566 ne rimangono cinque che vengono accorpate in un unico grande edificio detto proprio per questo motivo “delle Cinque Scole”. Ossia il Tempio, la Nova, la Siciliana, la Castigliana e la Catalana.
All’interno l’edificio ospita anche il Museo d’arte ebraica dove è possibile ammirare reperti archeologici, stampe, oggetti liturgici e molto altro.
La piccola piazza su cui si affaccia la Sinagoga, dalla parte del Tevere, è dedicata a Gaj Taché. È il bambino vittima dell’attentato alla Sinagoga del 9 Ottobre del 1982. Non sorprende quindi che ancora oggi il Tempio sia presidiato dai Carabinieri.
Ghetto di Roma. Casina dei Vallati
Proseguendo la nostra passeggiata su via del Portico d’Ottavia, incontriamo sulla destra la Casina dei Vallati. Un edificio duecentesco con aggiunte cinquecentesche, restituito alla vista dei passanti in seguito agli sventramenti effettuati alla fine degli anni Venti per l’isolamento del Teatro di Marcello.
Attualmente ospita interessanti mostre ed eventi curati dalla Fondazione Museo della Shoah.
Poco più avanti si offre maestoso alla nostra vista uno dei simboli di Roma, il Portico d’Ottavia.
Ghetto di Roma. Il Portico d’Ottavia
Si tratta di un monumento chiave per la comprensione del concetto di stratificazione storica, così importante per questa città.
Viene costruito per delimitare il lato settentrionale del Circo Flaminio da Quinto Cecilio Metello Macedonico nel 146 a.C. La nuova costruzione ingloba un tempio preesistente dedicato a Giunone Regina, costruito nel 179 a.C. dal censore Marco Emilio Lepido.
Scorci del Portico e particolari ©Francesca Boccini
Si realizza ex novo, invece, un secondo tempio votato a Giove Statore, il primo ad essere costruito interamente in marmo. Il portico viene ricostruito nel 203 da Settimio Severo e Caracalla. Ma è ad Ottavia che deve la sua fama e il nome che porta. All’amata sorella di Augusto, infatti, viene attribuito un importante rifacimento tra il 33 e il 23 a.C. e l’aggiunta di una curia e di una biblioteca.
Quello che ne rimane oggi è il propileo del lato meridionale sul cui architrave si legge la dedica di Settimio Severo e Caracalla del 203 d.C. Il propileo è stato riadattato come ingresso per la chiesa di Sant’Angelo in Pescheria che dà il nome al rione.
Una lastra in marmo murata nel portico recita: “Le teste dei pesci più lunghe di questo marmo, datele ai conservatori fino alle prime pinne”.
Il riferimento è all’antico mercato del pesce, che si teneva qui durante il Medioevo, e alla magistratura dei Conservatori. A loro spettavano di diritto i pesci più grossi.
Sant’Angelo in Pescheria
Quanto alla chiesa, si tratta di un’antica diaconia del 755, più volte restaurata e rimaneggiata nel corso dei secoli. Al suo interno possiamo ammirare una Madonna con Bambino ed Angeli dipinta ad affresco e attribuita a Benozzo Gozzoli (1450).
Sant’Angelo in Pescheria e accanto Sant’Andrea dei Pescivendoli | ©Francesca Boccini
L’edificio è anche famoso perché nella notte di Pentecoste del 1347 Cola di Rienzo prende le mosse da qui per occupare il Campidoglio e dar seguito al suo sogno di una nuova Repubblica Romana.
I Templi di Apollo Sosiano e di Bellona
Fuori dalla chiesa, non possiamo non soffermarci sulla passerella per godere dell’elegante facciata decorata a stucco del secentesco oratorio di Sant’Andrea dei Pescivendoli.
Teatro di Marcello e resti dei Templi di Bellona e di Apollo Sosiano | ©Francesca Boccini
Bastano pochi minuti e la nostra attenzione viene immediatamente rapita dal camminamento sotto il livello della strada moderna. Come in un viaggio indietro nel tempo ci conduce ad alcune importanti evidenze archeologiche: il Tempio di Apollo Sosiano e il Tempio di Bellona (296 a.C.).
Del primo rimangono in situ parte del podio con tre magnifiche colonne corinzie, rialzate dopo lo scavo, e parte del fregio a bucrani e ghirlande.
Per avere un’idea dello splendore di questo tempio, votato nel 433 a.C. dopo un epidemia e dedicato ad Apollo due anni dopo, possiamo ammirare l’Amazzonomachia del frontone oggi esposta presso la Centrale Montemartini. Si tratta di un nutrito gruppo di sculture datate al V secolo a. C. e provenienti da un antico tempio greco. Da cosa deriva, allora, l’epiteto «sosiano»? Tra i vari restauri, si ricorda la ricostruzione del 34 a.C. ad opera di C. Sosio, militare e politico romano vicino prima a Marco Antonio e poi ad Augusto.
Il Teatro di Marcello
Con gli sventramenti effettuati tra il 1926 e il 1932, palazzi e case costruiti sopra l’antico piano di calpestio e tutto attorno nel corso dei secoli, vengono abbattuti per liberare da questo affastellamento secolare di edifici un altro monumento emblema di Roma, il Teatro di Marcello.
Il palazzo Orsini, che sorge proprio sulle arcate del teatro, forma con esso forse il miglior esempio di riuso dell’antico.
Viene iniziato da Cesare e ultimato da Augusto che lo dedica al nipote Marcello, morto prematuramente. La dedica ufficiale si ha nel 13 o nell’11 a.C. e si ricorda un solo restauro voluto da Vespasiano.
Nel Medioevo lo occupano le famiglie Pierleoni e Savelli. Proprio per questi ultimi, nel 1523-27 Baldassarre Peruzzi interviene sulle precedenti fortificazioni medievali e costruisce una nuova dimora, impostandola direttamente sulle arcate della cavea.
A partire dal 1716 gli Orsini entrano in possesso del complesso, il cui piano nobile ospita affreschi con paesaggi settecenteschi e un gabinetto con maioliche coeve.
L’effetto del prospetto del teatro nel I secolo a.C. doveva essere splendido, con la facciata della cavea in travertino, le sue arcate, di cui ne rimangono dodici, e i suoi tre anelli rispettivamente decorati in ordine dorico, ionico e corinzio.
Oggi possiamo ammirare solo i primi due e immaginare l’ultimo piano come un attico a paraste corinzie. Per dimensioni il Teatro di Marcello è secondo solo a quello di Balbo e pare che potesse ospitare fino a ventimila persone.
Via del Portico d’Ottavia
Dopo questo tuffo nel passato archeologico di Roma, ripercorriamo la stessa stradina, ritorniamo al Portico d’Ottavia e da lì proseguiamo lungo la via omonima. Non si può non essere catturati dall’allegro vocio dei turisti seduti ai tavolini dei numerosi ristoranti che popolano i marciapiedi e dalle proposte culinarie dei camerieri ammiccanti. Dimenandoci tra la folla, sulla destra al numero civico 13, si scorge un portone apparentemente normale, se non banale. E invece racchiude una delle storie più affascinanti del ghetto, quella della casa dei Fabi.
Ghetto di Roma. Casa dei Fabi
Si tratta di un complesso edilizio il cui primo nucleo risale forse al XII secolo e rimaneggiato nel Cinquecento, come dimostra il loggiato in alto con labili tracce di pittura. Il primo proprietario è proprio la famiglia aristocratica dei Fabi, già documentata nel 1348 e che cade in disgrazia agli inizi del Seicento, per cui la casa diventa proprietà del Convento delle Monache di Sant’Ambrogio.
Nel secolo successivo passa all’arciconfraternita del Santissimo Crocifisso in San Marcello e nell’Ottocento viene divisa tra la Chiesa di Santa Croce in Publicolis e privati.
La vita nella casa dei Fabi
Con la fine del potere temporale della papato e con l’apertura del ghetto, alcuni cittadini ebrei ne diventano i proprietari e qui che comincia la storia affascinante di cui vi scrivevo prima.
Innanzitutto è singolare che essa non abbia mai fatto parte del ghetto in quanto sorge al di là del vecchio confine dello stesso.
Infatti, provate ad immaginare una dimora aristocratica trasformata in un dedalo sovraffollato di scale e piccoli appartamenti, quasi una sorta di alveare umano, dove le famiglie condividono tutto, da un piano all’altro, da balcone a balcone.
Immaginate i cortili interni affollati dai bambini che giocano, dalle donne che puliscono la verdura e lavorano con le macchine da cucire e dalle vecchie che spettegolano. Insieme si stendono i panni, si mette seccare la carne e le sere d’estate si portano fuori le sedie per scambiare due chiacchiere.
Potendo aprire il portone al numero 13 di via del Portico d’Ottavia avremmo avuto, insomma, uno spaccato di vita quotidiana e genuina almeno fino al fatidico 16 Ottobre del 1943.
Ma questa è un’altra storia e non è ancora arrivato il momento di raccontarla.
A partire dagli anni Settanta, gli appartamenti della casa sono ambitissimi da comunità hippy, intellettuali, stranieri e nuovi inquilini che nulla hanno a che fare con i precedenti.
Se aggiungiamo a questo la ristrutturazione architettonica negli anni Novanta si ha l’impressione che quello spirito un po’ popolano che la pervadeva sia andato perso.
Sant’Ambrogio della Massima e la casa dei Manili
Alle spalle della casa, si trova l’antica chiesa di Sant’Ambrogio della Massima costruita, si dice, sul luogo della casa paterna di Ambrogio e dove la sorella Marcellina aveva fondato un monastero.
Sant’Ambrogio della Massima ©Francesca Boccini
L’attuale chiesa è comunque frutto di un rifacimento secentesco. Poco più avanti, sempre sulla destra, una chicca, la casa dei Manili.
L’altorilievo con un leone che uccide un daino, la stele greca con due cani e il rilievo funerario con quattro busti sono parte della decorazione della facciata. Fanno di questo palazzetto quattrocentesco una summa della cultura umanista, di cui il proprietario, Lorenzo Manili, era un estimatore.
Particolari della decorazione ©Francesca Boccini
Piazza delle Cinque Scole
Arrivati a questo punto, dopo una piccola sosta per assaggiare una delle delizie della dolceria all’angolo, ci si trova ad una sorta di incrocio che corrisponde al confine del ghetto originario.
Davanti a noi la strada incontra via Arenula, sulla sinistra abbiamo piazza delle Cinque Scole, abbellita dalla ricostruita cinquecentesca fontana marmorea di Giacomo della Porta.
Sulla piazza prospettano la chiesa di Santa Maria del Pianto – legata al miracolo del 10 gennaio 1546 quando un’immagine della Vergine posta in un arco vicino pianse alla vista di un omicidio, il cinquecentesco palazzo Cenci Bolognetti e la cappella gentilizia di San Tommaso ai Cenci.
La fontana di Giacomo della Porta Santa Maria del Pianto e palazzo Cenci Bolognetti | ©Francesca Boccini
Questi ultimi due e, poco più avanti, anche il palazzetto Cenci, edificato da Martino Longhi il Vecchio, sono legati alla nobile famiglia Cenci, nota a Roma sin dal Medioevo.
Come non ricordare la figura della giovane Beatrice Cenci e della sua decapitazione a Castel Sant’Angelo che tanto sconvolse Caravaggio, Orazio e Artemisia Gentileschi.
Cappella di San Tommaso ai Cenci ©Francesca Boccini
Singolare ancora una volta è che tutte queste costruzioni, che insieme formano la cosiddetta isola dei Cenci, sorgano su antiche costruzioni romane. Sembra infatti che il Tempio dei Dioscuri si trovasse proprio in corrispondenza di San Tommaso ai Cenci.
Particolari de isola dei Cenci ©Francesca Boccini
Chi cammina per Roma corre un rischio: quello di cercare una cosa e finire per dimenticarla, perché nel frattempo ha trovato altro.
Verso Piazza Mattei
Ritorniamo, dunque, all’incrocio prima di piazza delle Cinque Scole. L’ultima via che ci rimane da percorre è a destra, attraversandola si può ammirare una curiosa edicola appartenente alla cappella settecentesca e ormai sconsacrata di Santa Maria del Carmine.
Cappella sconsacrata in piazza Costaguti e vicolo per il cortiletto | ©Francesca Boccini
Poco più avanti si ha la possibilità di immettersi in un piccolo e delizioso cortiletto privato, fortunatamente aperto, che dà quel senso di vicinato e di appartenenza al contesto e al luogo che avrà provato chi abitava il ghetto tanto tempo fa.
Proseguiamo attraverso piazza Costaguti e l’ultimo tratto di via Publicolis, da questa ci immettiamo in via dei Falegnami per concludere il nostro viaggio nella meravigliosa piazza Mattei.
Piazza Mattei
Una gioia per gli occhi grazie all’elegante e giocosa fontana delle Tartarughe realizzata su progetto di Giacomo della Porta tra il 1581 e il 1584.
Piazza Mattei e fontana
Sui conchiglioni marmorei della prima vasca si appoggiano efebi a cavallo di delfini che sorreggono tartarughe, queste ultime si abbeverano nella vasca superiore tra piccole teste di putti. Le tartarughe sono copie di originali scolpiti, forse, da Gian Lorenzo Bernini nel 1658.
In piazza Mattei si ha il privilegio di essere circondati da alcuni dei più bei palazzi aristocratici della città.
Palazzo Costaguti (al numero civico 10) con le sue sontuosissime sale affrescate da Giovanni Francesco Romanelli, Pier Francesco Mola, Taddeo e Federico Zuccari, Cavalier d’Arpino, Domenichino e Guercino.
Il palazzo di Giacomo Mattei, appartenente alla nota famiglia aristocratica romana che nel Cinquecento diventa proprietaria dell’intero isolato, la cosiddetta isola Mattei.
Palazzo Costaguti e uno degli ingressi di palazzo Mattei | ©Francesca Boccini
Conosci la popolare leggenda del duca Mattei che fece costruire in una sola notte la fontana delle Tartarughe per ottenere i favori del padre della fanciulla amata? Si narra che il giovane duca fosse dedito al gioco e, avendo perso molto denaro, cadde in disgrazia agli occhi del futuro suocero. Così, per ottenerne nuovamente il rispetto, fece erigere la fontana ed aprire una finestra nel suo palazzo dalla quale il suocero potesse ammirarla.
Presa con la dovuta cautela, questa leggenda ci fa dire “cosa non si fa per amore?!”.
L’alba del 16 Ottobre
Come scrivo all’inizio, una passeggiata al ghetto di Roma è un fare i conti con diverse emozioni. Quello che ho raccontato fino ad ora non può che stupirci e farci innamorare di questo piccolo rione e di alcune delle bellezze che lo impreziosiscono e che abbiamo descritto.
Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo. L’importanza di un luogo non è solo quello che si vede, ma è anche la storia che racconta.
Adesso facciamo un ultimo salto indietro nel tempo e precisamente all’alba del 16 ottobre del 1943.
Immaginati nella tua casa, probabilmente al caldo e sotto le coperte, pare avesse piovuto quella notte. E nell’intimità silenziosa ed avvolgente della tua casa inizi ad udire un rumore cadenzato, che non smette mai. Sempre più vicino.
Dettagli ©Francesca Boccini
Chi può essere per strada a quest’ora?
Devono essere in tanti e sembrano indossare stivali, sono soldati.
Alla marcia si aggiungono gli spari, senza un obbiettivo preciso, e le urla forti, acute in una lingua incomprensibile.
È poco prima delle cinque e trenta e in pochi attimi è il panico. Dappertutto guardie e pattuglie ti circondano, entrano nella tua casa senza bussare, sfondando la porta a calci o con il fucile.
Pietre d’inciampo di Gunter Demnig ©Francesca Boccini
A questo punto pensi “prenderanno solo gli uomini per portarli ai lavori forzati”. Così i più scaltri riescono a fuggire, attraverso i tetti, dal retro delle case o dai balconi dei vicini.
E invece no, prendono tutti: donne, bambini e anziani inclusi. A tutti viene detto di portare solo l’essenziale. A tutti si urla. Tutti vengono colpiti.
Immagina che ti carichino su un camion e ti portino al Collegio militare di Via della Lungara e da qui, nei giorni successivi, alla Stazione Tiburtina.
“Ognuno accanto alla sua notte”
Quello che avvenne alle cinque e trenta del 16 Ottobre del 1943 è il rastrellamento del ghetto di Roma, a cui ne seguirono anche altri in tutta la città.
Cosa fa un rastrello? Estirpa le erbacce dalla terra e questo rende il senso infimo di quello che è stato fatto.
Poco meno di un mese prima il Maggiore delle SS Herbert Kappler aveva ricevuto il presidente della Comunità Israelitica di Roma e quello dell’Unione delle Comunità d’Italia per imporgli la famosa taglia dei 50 chilogrammi di oro da versare entro le ore 11 del 28 Settembre. Pena, in caso di inadempienza, la deportazione in Germania di 200 Ebrei.
Ebbene, oggi sappiamo che il rispetto della scadenza non servì a nulla, era tutto un inganno. Sappiamo che vennero stilati degli elenchi e che questi vennero forniti dalla polizia italiana collaborazionista.
Pietre d’inciampo in via della Reginella e in via di Sant’Angelo in Pescheria | ©Francesca Boccini
Sappiamo che molte furono le spie e i delatori.
I testimoni, ormai pochi purtroppo, e gli storici parlano di famiglie separate, di donne incinte che non hanno mai partorito e dunque anche di bambini mai nati.
Qualcuno fece in tempo a consegnare il figlio ad uno sconosciuto prima di essere caricato sul camion. Qualcun altro, fortunatamente fuori città, ritornò il giorno dopo nella propria dimora trovandola saccheggiata e soprattutto disabitata.
Fecero il possibile per scappare, attraverso le viuzze del ghetto. Alcuni vennero aiutati dai vicini.
Le pietre d’inciampo
Esistono storie bellissime che meriterebbero di essere lette e che qui non si ha il tempo e il modo di narrare, ma percorrendo via della Reginella, da piazza Mattei verso via del Portico d’Ottavia, un tappeto di pietre d’inciampo dell’artista Gunter Demnig ci costringono ad “inciampare” con la storia.
Sono tante, in tutto il ghetto di Roma ma non sono ancora tutte. Nella casa dei Fabi vennero prese così tante persone che, se si fosse voluto dedicare a ciascuna di esse una pietra d’inciampo, tutte insieme avrebbero raggiunto le dimensioni di un lenzuolo. Così racconta Anna Foa.
Al ghetto di Roma vennero prese poco più di mille persone e di esse solo sedici fecero ritorno.
Come recita Primo Levi “[…] Meditate che questo è stato”. Ed è stato anche qui, nel cuore di Roma, dove oggi si ride, si scherza, si mangia al ristorante. Si è pensato di poter disporre arbitrariamente della vita delle persone prima chiudendole in un ghetto, poi deportandole. Il ricordo, probabilmente, è l’unico modo che abbiamo per risarcirle.
Ghetto di Roma – I sapori nei dintorni
Se venite al ghetto, uno dei consigli è di provare – almeno una volta – i piatti della cucina giudaico-romanesca.
Ovviamente si tratta di ricette che non impiegano carne di maiale.
Su via del Portico d’Ottavia trovate tanti nomi, per lo più storici. Tempo fa abbiamo mangiato da Nonna Betta e non ci siamo pentiti. Nella mia memoria è ancora ben impresso il ricordo del meraviglioso carciofo alla giudia e della coratella coi carciofi (attenzione però: solo se vi piacciono le interiora!).
Ghetto di Roma – Info utili
Ecco quanto ti serve per programmare la tua visita al Ghetto di Roma. Se desideri saperne più, commenta qui sotto o contattaci sui social! Apri la mappa e ottieni il percorso.
Museo Ebraico di Roma. Orario Invernale. Dal 1 al 24 ottobre e dal 1 al 31 marzo: aperto da domenica a giovedì. Orario dalle 10 alle 17 (ultimo ingresso alle 16:15). Venerdì dalle 9 alle 14 (ultimo ingresso alle 13:15). Dal 25 ottobre al 28 febbraio: da domenica a giovedì . Orario dalle 9:30 alle 16:30 (ultimo ingresso alle 15:45). Venerdì dalle 9 alle 14 (ultimo ingresso alle 13:15).
Orario Estivo. Dal 1 aprile al 30 settembre. Aperto da domenica a giovedì. Orario dalle 10 alle 18 (ultimo ingresso alle 17:15). Venerdì dalle 10 alle 16 (ultimo ingresso alle 15:15). Biglietto: intero € 11, ridotto € 8, studenti € 5. Gratuito per disabili, bambini sotto i 10 anni (escluso gruppi), giornalisti, membri Icom e forze dell’ordine.
Casina dei Vallati – Fondazione Museo della Shoah. Aperto dalla domenica al giovedì. Orario: dalle 10 alle 17. Venerdì dalle 10 alle 13 (escluse festività ebraiche).
Ti è piaciuta la visita del Ghetto di Roma?
Ecco le nostre tips local in giro per Roma, o per un Fuori Porta da provare!
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Usa #LoveLiveLocalIta #Localtrotters
♥️
1 commento
[…] In realtà questa strada in origine si chiamava via delle Palme. La presenza di questi alberi si doveva al fatto che qui si era insediata – nel II a.C. – la prima comunità ebraica, prima di spostarsi nel Rione Sant’Angelo (qui trovate la nostra passeggiata al ghetto di Roma). […]
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